L’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo a vantare una rinomata e ormai consolidata tradizione di doppiaggio a livello cinematografico. La pratica è talmente diffusa che spesso ci si dimentica totalmente del fatto che i film non sono italiani anche se li stiamo guardando doppiati nella nostra lingua. L’italiano dei film stranieri, infatti, è sempre perfetto, impeccabile e degno della miglior scuola di dizione; oltre alla bravura dei nostri doppiatori, chi si occupa di doppiaggio ha raggiunto un livello di esperienza tale da gestire qualsiasi tipo di pellicola senza alcuna difficoltà (o quasi).
Allo stesso modo, nel nostro Paese è usanza comune che tutti i libri pubblicati siano generalmente scritti in lingua italiana, tant’è che quando si cita una qualsiasi opera straniera viene naturale riportare le parole in italiano pur se lo stesso testo non è stato scritto da un nostro connazionale. Basti pensare alla celeberrima “Essere o non essere? Questo è il problema!” che associamo normalmente a Shakespeare senza tener minimamente conto del fatto che le parole del testo originale non possono esser quelle e che, chiaramente, qualcuno deve averle tradotte in italiano per farle corrispondere nel significato. La cosa vale infatti sia per il doppiaggio che per i libri tradotti in italiano oltre che a tutti i manuali, foglietti illustrativi, certificati e documenti di identità che troviamo scritti in italiano.
Tutto questo, ovviamente, non avviene per pura e semplice “magia”; la responsabilità è di una schiera di traduttori professionisti, ciascuno esperto in un particolare settore (tecnico, letterario, cinematografico, medico, ecc.), che si adopera quotidianamente per rendere nella nostra lingua testi, filmati e altro materiale proveniente da un paese straniero e scritti in una lingua diversa dalla nostra, dando vita all’abile “gioco di prestigio” che è la traduzione. Aprendo il dizionario, infatti, alla voce traduzione troveremo che l’arte del tradurre è un’attività che comprende l’interpretazione del significato di un testo (“di origine” o “source”) e la successiva produzione di un nuovo testo, equivalente a quello di origine, in un’altra lingua (lingua “di destinazione” o “target”). Per tradurre, quindi, non basta essere madrelingua della lingua target e conoscere la lingua source, il che comporta necessariamente il fatto che non tutti possono improvvisarsi traduttori e affrontare la traduzione di nessun testo, dal momento che, in ogni caso, il livello linguistico sarà sempre più alto rispetto al semplice linguaggio colloquiale utilizzato nella quotidianità.
Il traduttore, infatti, ha la funzione sia di mediatore tra le due lingue che di ghost-writer nella produzione del nuovo testo tradotto, dal momento che il suo scopo è quello di portare il testo dalla lingua di origine alla lingua di destinazione in maniera tale da mantenere il più possibile inalterato il significato e lo stile del testo, ricorrendo, se e quando necessario, anche a processi di adattamento. Lutero, uno dei primi traduttori della Bibbia dal latino, sosteneva la necessità di tradurre applicando il principio del Verdeutschen und Dolmetschen, ossia di interpretazione del testo in tutti i suoi aspetti e di successivo adattamento dei contenuti e ai canoni culturali del Paese nella cui lingua si sta traducendo. Volendo fare un esempio, quando ci si appresta a tradurre in inglese, non basta saper parlare inglese; bisognerà chiedersi a quale dei tanti Paesi anglofoni la nostra traduzione è destinata, sia essa per gli Stati Uniti, per l’Inghilterra o per l’Australia. Non a caso, le distinzioni non riguardano unicamente problemi di ortografia ma anche l’uso dei singoli termini nelle rispettive culture: oltre alle varianti di spelling che traducono in inglese il nostro “teatro, ing. brit. “theatre” vs. ing. amer. “theater”, maggiori problemi si possono riscontrare con parole come “ascensore”, che in inglese britannico si traduce con “lift”, mentre in America è normalmente e unicamente chiamato “elevator”, o “febbre, a cui corrispondono l’inglese “temperature” e l’americano “fever”.
Gli esempi potrebbero contiuare all’infinito in qualsiasi settore e contesto di impiego: la questione, infatti, non riguarda semplicemente le varianti dialettali (a cui siamo tanto abituati in italiano) ma a un più complesso processo di distinzione netta di significato che rende i messaggi incomprensibili da un Paese all’altro e, perché no, anche tra diverse aree geofrafiche. Noi italiani sappiamo bene che mettendo vicini un siciliano e un bergamasco che parlano solo dialetto la comunicazione sarà estremamente difficile se non del tutto impossibile. Quello che non ci aspettiamo è che gli americani, tra East e West Coast, non riescano a comprendersi pur parlando la stessa lingua. Ricordo ancora uno dei miei colleghi americani che mi spiegava come lui, che veniva da Los Angeles, non fosse riuscito a “seguire” per intero il film Philadelphia, interamente recitato nello slang della città della Pennsylvania, mentre un collega inglese, pur non essendo americano, non aveva avuto alcun tipo di problema con quel film.
Altre problematiche possono sorgere, inoltre, da una scarsa conoscenza della grammatica della propria lingua madre. Sempre rimanendo in tema di traduzione dall’italiano all’inglese, mi è capitato più volte di vedere persone in difficoltà quando si trattava di tradurre la parola “mio”. Come è noto, questa parola ha due possibili traduzioni in inglese, a seconda che il suo ruolo sia quello di aggettivo (my) o pronome possessivo (mine). La domanda che mi veniva rivolta era sempre la stessa : come si traduce, allora, fuori dal contesto? La risposta non pertiene né la traduzione né la conoscenza della lingua inglese (o di altre) ma la funzione logica svolta dalla parola “mio” in italiano, la cui conoscenza e padronanza d’uso non è scontata per una buona fetta degli italiani. Le cattive traduzioni, di conseguenza, possono essere più frequenti di quanto non si vorrebbe; i traduttori improvvisati e inesperti non riescono a cogliere facilmente tutte le problematiche del caso e gli errori di traduzione possono trasformarsi da semplici refusi a castronerie eclatanti. Un testo ben tradotto, infatti, non lascerà mai al suo lettore alcun dubbio sul fatto che il documento sia stato scritto nella lingua di fruizione, mentre è facilmente comprensibile a tutti quando una traduzione non è stata fatta seguendo tutti i crismi del caso. La storia recente riporta da sola diversi esempi di “cattiva traduzione”; dal più recente bando pubblicato dall’amministrazione Gelmini per il pecorino al manuale di istruzioni dei mouse dell’IBM pubblicato qualche anno fa.
Al di là dei sorrisi che questi episodi possono dipingere sul volto, altre sono le problematiche e gli incidenti dovuti a traduzioni non accurate e svolte da persone non esperte in questa attività. Oltre al fatto che in Italia la figura del traduttore non è riconosciuta a livello professionale, dato che non esiste un albo per questa categoria, e che quindi tutti possono improvvisarsi traduttori (magari usando Google Translate come riferimento), a causa delle differenze tra le lingue, spesso è difficile (se non impossibile) conservare con esattezza il senso e lo stile della scrittura – il ritmo, il registro linguistico, ecc – e la traduzione dovrà trasformarsi da “crisalide in farfalla” operando dei cambiamenti significativi in funzione della natura del testo stesso e degli scopi che la traduzione si prefigge. In questo contestano rientrano i testi pubblicitari e di marketing studiati ad hoc con giochi di parole nel tentativo di catturare l’attenzione del proprio pubblico. Nei casi più complessi il traduttore si troverà di fronte parole che rimano o si somigliano nella lingua originale ma non in quella di destinazione, proverbi oppure concetti tipici della lingua e della cultura d’origine che non hanno equivalenti diretti nella lingua di destinazione.
In altre parole, tradurre è un’attività estremamente complessa, che richiede una notevole dose di conoscenze nella lingua source, nella lingua target, nel settore e nel contesto in cui il testo viene tradotto (es. settore: legale, contesto: contratto). Si dovrà infatti trasportare il testo originale nella lingua di destinazione mantenendo lo stesso registro linguistico, i contenuti, la forma e la consistency terminologica del testo, adattando l’intraducibile per renderlo traducibile e comunicando il più efficacemente possibile su vasta scala senza mai incorrere in espressioni di uso comune che potrebbero essere soggette a varianti regionali e a conseguenti problemi di comprensione di “fischi per fiaschi”. Inoltre, pur se la vostra conoscenza delle lingue source e target è buona e “masticate” il contesto di riferimento, farvi da ponte sarà un’impresa ardua e dai risultati discutibili: contrariamente a chi si improvvisa traduttore, i professionisti dispongono di glossari e memorie di traduzione specifiche per combinazione linguistica, macroarea e contesto che sono state costruite giorno dopo giorno nell’arco di anni di esperienza. A parità di conoscenze e competenze, quindi, la traduzione di un professionista sarà sempre più corretta e accurata.
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